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Alle 19.45 dell’8 settembre 1943, il maresciallo Badoglio, capo del governo, annuncia alla radio l’armistizio con gli angloamericani. Il proclama termina con le parole: le forze italiane “reagiranno ad eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza”. Parole ambigue che disorientano i comandi militari: da dove devono arrivare gli “eventuali attacchi” se non dai tedeschi?.  L’esercito, lasciato senza ordini precisi, quasi ovunque si dissolve. Ai  tedeschi, che nei giorni precedenti avevano fatto affluire rinforzi dal Brennero, bastano pochi giorni per occupare  tutta l’Italia a nord di Salerno e catturare  un numero impressionante (810.000 circa) di  ufficiali e soldati, privi di ordini precisi,  in Grecia, in Albania, in Jugoslavia e sugli altri fronti, avviandoli alla prigionia in Germania. Fra i soldati italiani si contano anche 60.000 fra morti e dispersi.  Molti si tolgono l’uniforme e cercano di fuggire, la gente, soprattutto le donne,  cercano di aiutarli dando loro abiti borghesi.

L’annuncio dell’armistizio getta la popolazione ferrarese come quella di tutto il Paese in una sconfortante confusione. La maggioranza dei giovani, figli, mariti, fratelli era lontana nei vari fronti e la guerra non era finita! Il 9 settembre i tedeschi occupano Ferrara e la sua provincia. Il dramma dei militari è terribile come testimonia il signor   Celso Bazzanini di Massafiscaglia: l’8 settembre mi trovavo con la mia divisione  in Grecia, il 9 arrivano da una parte i partigiani greci e dall’altra i tedeschi che erano diventati nostri nemici il giorno prima, tutti potevano spararci addosso.

Molti militari, sorpresi dall’8 settembre nei territori dell’ex Jugoslavia scelsero di unirsi ai partigiani iugoslavi,  emblematica la testimonianza rilasciata a chi scrive nell’ agosto  1999 dall’avvocato Raffaello Collevati, uno dei più importanti protagonisti della storia del nostra città e del Paese nel dopoguerra  (Vice comandante della Divisione Italia nella guerra di liberazione in Jugoslavia fu decoratocon medaglia d’argento,  di bronzo e  croce di guerra. Esponente di spicco del partito socialista nel dopoguerra prestò la sua opera di avvocato in difesa dei braccianti arrestati nei grandi scioperi degli anni cinquanta. Fu fra l’altro   di presidente dell’Arcispedale S. Anna,membro del Consiglio Superiore di Sanità, presidente della Cassa si Risparmio)  “Ero ufficiale di Stato Maggiore, avevo fatto la scuola di guerra. L’8 settembre 1943 mi trovavo sul fronte jugoslavo nella zona delle Bocche di Cattaro. La notizia dell’armistizio ci colpì come un fulmine. E’ vero che il 25 luglio non era passato nell’indifferenza, ma la guerra continuava e noi soldati continuavamo a fare il nostro dovere. Quando arrivò il dispaccio venni chiamato dal comandante della divisione Taurinense e insieme decidemmo di prendere contatti con i patrioti jugoslavi che operavano nella zona. Non ebbi dubbi. Insieme a molti dei miei soldati e a diversi ufficiali passai nelle file dei partigiani, condividendo con loro l’obiettivo di combattere i tedeschi, naturalmente consapevole dei rischi a cui andavo incontro. Ma bisognava battere il nazismo per salvare non solo la liberà, ma proprio la democrazia. Con l’annuncio dell’armistizio era arrivato l’ordine di far saltare alle Bocche di Cattaro le fortificazioni che erano state tenute da noi italiani e dai tedeschi. Facemmo saltare le fortificazioni e mentre l’artiglieria era impegnata contro i tedeschi, mi recai insieme a un folto gruppo di soldati presso un battaglione di patrioti jugoslavi, che si trovava sulle montagne vicine. Fu un momento traumatico, prima di lasciare la divisione, parlai con tutti i miei soldati dicendo loro che erano liberi di scegliere, che non dovevano sentirsi obbligati a seguirmi. Come ho detto molti vennero con me, altri decisero di rientrare in Italia e tanti sarebbero stati catturati dai tedeschi.”

 

I militari italiani catturati dai tedeschi sui vari fronti di guerra vennero considerati disertori oppure franchi tiratori e quindi giustiziabili se resistenti come Cefalonia, a Corfù, in Albania. Erano classificati prima come prigionieri di guerra, fino al 20 settembre 1943, poi dopo la costituzione della Repubblica Sociale Italiana  il 23 settembre 1943, vennero considerati internati militari italiani (IMI), con decisione unilaterale accettata passivamente dalla RSI che li considerava propri militari in attesa di impiego. Non essendo riconosciuti come prigionieri di guerra potevano essere “schiavizzai” senza controlli. La categoria IMI era ignorata dalla Convenzione di Ginevra sui Prigionieri, del 1929.

Nonostante le sofferenze e il trattamento disumano subito nei lager, oltre 600.000 su 810.000  soldati italiani rimasero fedeli al giuramento alla Patria, scelsero di resistere e dissero “NO” alla RSI.

 

Gli internati militari ferraresi   dai  dati fino ad ora raccolti  ( vedi Marisa Chiarion Roncarati Gli italiani del silenzio, Ferrara, 2002)  sono circa 625: 250 catturati nella ex Jugoslavia, 135 in Grecia, 28 in Albania, 171 nel Centro e Nord Italia, 15 in Francia. Molti, più di 100, furono anche gli internati civili ferraresi, uomini e donne, oppositori del regime o semplicemente contrari alla guerra, e soprattutto i renitenti alla leva. La maggioranza fu rastrellata nel periodo che va dall’aprile all’agosto 1944. La testimonianza del ferrarese Ferruccio Mazza riportata nel libro Sklavin, (a cura di D. Civolani Ferrara, 2001) ci racconta il terribile trattamento  riservato agli IMI praticamente “schiavi”

Nel 2010 il  Presidente della Repubblica ha voluto riconoscere il sacrificio degli Internati Militari e Civili conferendo loro una medaglia d’onore.

Da quell’anno in una solenne cerimonia presso  le Prefetture   il 27 gennaio – giorno della memoria e il 2 giugno vengono  consegnate le medaglie agli internati. A tutt’oggi presso la Prefettura di Ferrara sono stati insigniti della medaglia d’onore del Presidente della Repubblica circa 300 internati ferraresi

La memoria di quanto è accaduto non va smarrita ed è molto importante non dimenticare parole come quelle che ci ha detto uno degli internati ferraresi (Filippo Mezzogori di Comacchio): “si moriva di fame, eravamo tutti pelle e ossa…anche le pecore morivano di fame perché noi mangiavamo le radici delle erbe di cui loro si nutrivano…”. “Ciò che ci faceva andare avanti era il nostro stare insieme, lo stare uniti…le cose che ho visto durante il mio internato “urtano il sangue”…non si può credere, non si può raccontare…”.

 

Anna Quarzi

Direttrice Istituto di Storia Contemporanea